Emanuele Zilli: La tragedia dimenticata di un Militante MSI e il “mistero” della sua morte
Nato a Fano Adriano, nel Teramano ed emigrato a Pavia, cugino dell’allora direttore di Famiglia Cristiana, Emanuele Zilli, a 25 anni, ha già una moglie e due bambine di uno e due anni.
Lavora, per mantenere tutta la famiglia, come operaio presso uno spedizioniere di Pavia, la ditta Bertani. E fa politica con l’MSI in quegli anni in cui essere un militante di destra significa rischiare ogni giorno le botte, il carcere e, purtroppo, anche la morte. E’ ciò che accade a Zilli.
Siamo nel 1972 e il militante missino viene aggredito una prima volta, in piazza Castello, a Pavia. Una settimana dopo – è il 5 dicembre del 1972 – stessa sorte, ma in piazza Vittoria. Lui e altri ragazzi dell’MSI stanno attaccando alcuni manifesti quando vengono aggrediti da un gruppo di facinorosi del Partito comunista marxista-leninista e stanno per essere sopraffatti.
Uno dei ragazzi missini, a quel punto, tira fuori una pistola ad aria compressa e spara ferendo al gomito Carlo Leva, militante del Partito comunista marxista-leninista che è nel gruppo degli aggressori dei ragazzi missini.
La faccenda non finisce lì: prelevato successivamente sotto casa da un gruppo di extraparlamentari di sinistra, Emanuele Zilli viene pestato selvaggiamente. I testimoni racconteranno l’episodio sostenendo di aver visto due medici del Policlinico dove Zilli sarà ricoverato per le gravi ferite riportate. Saranno denunciati per la prognosi redatta che porta il ragazzo ad essere prima dimesso subito dal nosocomio e, poi, perfino arrestato dalla polizia.
Sarà scagionato completamente ma, oramai, il suo destino è segnato. Perfino Lotta Continua gliel’ha giurata. Sotto casa spuntano quelle scritte inquietanti che negli anni ’70 hanno spesso anticipato gli omicidi politici: “Zilli sei il primo della lista”.
Un anno dopo, il 2 novembre, è un venerdì, Emanuele Zilli esce dal lavoro alle 18:30 inforcando il suo Malaguti 50 per tornare dalle sue bimbe e dalla moglie Giuseppina. Ma a casa non arriverà più vivo. Qualcuno lo vede pedalare su quel ciclomotore che, a malapena, fai i 30 all’ora. Lo ritroveranno a terra, in via Fratelli Scapolla, un occhio pesto, un segno come di “incravattamento” sul collo, il motorino poco distante.
E’ l’evidente simulazione di un incidente stradale, come se Zilli fosse rimasto vittima di un pirata della strada. E, incredibilmente, la questione verrà chiusa proprio così. Sull’asfalto non c’è alcuna traccia di un eventuale scontro.
Zilli resta agonizzante per tre giorni in ospedale. Morirà, senza mai aver ripreso conoscenza, la mattina del 5 novembre 1973.
La moglie Giuseppina rimarrà vedova a 22 anni. E, inutilmente, supplicherà un’indagine seria per capire com’è morto il suo giovane marito.
Patrizia e Vincenza, le due bimbe, non riabbracceranno mai più quel padre che a 25 anni si spacca la schiena ogni giorno per dare loro un futuro migliore.
Molti giornali si interrogano su quella morte a dir poco strana. Zilli rimarrà un morto di nessuno. Le perizie redatte dicono tutto e il contrario di tutto.
Il suo avvocato, Carlo Dell’Acqua, sarà feroce una volta acquisito l’esito della perizia sul corpo del povero Zilli: “Emanuele Zilli fu vittima di numerose aggressioni sul lavoro, sulle piazze, nella sua stessa dimora. Oggi è il simbolo di una categoria di persone che una corrotta società, per fortuna ormai alle corde, ha relegato tra i nemici del vivere civile. Nella morte di Zilli c’è l’infamia della pavidità e della vigliaccheria. La morte fu solo l’epilogo: le cause immediate sono poca cosa di fronte a quelle mediate che hanno fatto della sua vita un calvario”.
Noi non dimentichiamo. Presente!