29 Aprile: Sergio Ramelli, Carlo Borsani, Enrico Pedenovi

29 Aprile: Sergio Ramelli, Carlo Borsani, Enrico Pedenovi

Il 29 aprile è un giorno segnato in nero sui calendari di tutta l’arera neo e post fascista. In questo giorno, sono mancati, colpiti dall’odio rosso, Sergio Ramelli, Enrico Pedenovi, e Carlo Borsanti.

3 persone diverse, caduti in differenti agguati, in due diverse stagioni politiche. Per ricordarli, riportiamo di seguito 3 articoli:

Sergio Ramelli:

Correva l’anno 1975, moriva in quel tempo un audace giovane italiano; Sergio Ramelli, di soli diciotto anni. La sua colpa? Aderire al fronte della gioventù, organizzazione giovanile dell’ MSI, ed aver presentato un tema a scuola condannando le barbarie delle Brigate rosse. Ramelli è un ragazzo come tanti, ama la musica, il calcio, aveva una fidanzata,  Flavia, e si volevano bene, si amavano come ci si può amare solo a vent’anni, ed è inoltre un ottimo studente dell’ Istituto Tecnico Industriale Statale Enrico Molinari. Inizia tutto all’ alba del 1975; Giorgio Mellinton, insegnante di italiano presso l’istituto Molinari, assegna in aula il tema in questione. Non è un tema assegnato a caso. Il professore è un simpatizzante di sinistra.  Nonostante ciò Ramelli non ha timori od esitazioni nell’esprimere le sue idee; a lui piace cavarsela da solo. Mellinton assegna varie tracce e Ramelli non può far altro che scegliere quella di attualità; di attuale in quegli anni in Italia c’erano solo le Brigate rosse. Ramelli inizia a scrivere, racconta di come il duplice omicidio di Mazzola e Giralucci sia stato l’inizio della tragedia di quegli anni; tragedia che sarebbe culminata nell’omicidio di Aldo Moro. Quel tema il professor Mellinton non potrà mai correggerlo poiché uno dei suoi compagni di classe, dopo aver raccolto i compiti per portarli al professore incontra nel corridoio un gruppetto di militanti di Avanguardia Operaia.  In quel momento storico loro possono permettersi il lusso di fare quello che vogliono, pertanto strappano dalle mani del ragazzo tutti i compiti ed iniziano a leggerli. Passate un paio d’ore i compagni di tutto l’Istituto poterono ammirare il compito di Ramelli sulla bacheca della scuola. Sotto la scritta “ECCO IL TEMA DI UN FASCISTA”. Da quel giorno in poi Milano sarà paragonabile all’inferno per Ramelli; minacce, soprusi ed insulti. I membri di Avanguardia non gli danno tregua; lo prelevano in classe per pestarlo; gli fanno verniciare la facciata della scuola; lo rendono oggetto dei peggiori scherni. Ancora una volta Ramelli non racconta nulla alla madre per non destare preoccupazioni, ma le minacce aumentano. Iniziano le telefonate anonime in casa con costante sottofondo: il riconoscibilissimo motivetto squallido di bandiera rossa. Tutti vedono ma nessuno lo difende; d’altronde loro sono di AVANGUARDIA OPERAIA, possono fare quello che vogliono. Purtroppo il 13 Marzo 1975, non è una giornata “tranquilla” come le altre. Ramelli va a scuola e come tutti i giorni aspetta la campanella per scappare dalle mura scolastiche. Quel giorno però, fuori la scuola, c’era uno striscione “Hazet 36, Fascista dove sei!?”. La Hazet 36 è una chiave inglese lunga quarantacinque centimetri, del peso di circa tre chili e mezzo, peggio di una quarantacinque magnum, utilizzata dai compagni per il servizio d’ordine durante i cortei. Lo seguono fino a casa; sono in quattro ad aspettarlo. Non appena il giovane Ramelli scese dal suo motorino, mentre uno di loro faceva il palo, tre lo colpirono a colpi di chiave inglese. “Una ferocia inaudita” e’ ciò che viene detto al riguardo. Sarà l’inizio di una lunga agonia per Sergio; un’ operazione durata circa cinque ore ed un’ agonia in ospedale di quarantasette giorni. Purtroppo il suo cuore non regge e muore il 29 Aprile 1975.  Ramelli capisce, si protegge la testa con le mani. Ha il viso scoperto e posso colpirlo al viso. Ma temo di sfregiarlo, di spezzargli i denti. Gli tiro giù le mani e lo colpisco al capo con la chiave inglese. Lui non è stordito, si mette a correre. Si trova il motorino fra i piedi e inciampa. Io cado con lui. Lo colpisco un’altra volta. Non so dove: al corpo, alle gambe. Non so. Una signora urla: “Basta, lasciatelo stare! Così lo ammazzate!” Scappo, e dovevo essere l’ultimo a scappare. » Queste le dichiarazioni di Marco Costa, uno dei colpevoli. Altro colpevole, Giuseppe Ferrari Bravo, facente parte del gruppo di morte, dichiarerà « Aspettammo dieci minuti, e mi parve un’esistenza. Guardavo una vetrina, ma non dicevo nulla. Ricordo il ragazzo che arriva e parcheggia il motorino. Marco mi dice: “Eccolo”, oppure mi dà solo una gomitata. Ricordo le grida. Ricordo, davanti a me, un uomo sbilanciato. Colpisco una volta, forse due. Ricordo una donna, a un balcone, che grida: “Basta!”. Dura tutto pochissimo… Avevo la chiave inglese in mano e la nascosi sotto il cappotto. Fu così breve che ebbi la sensazione di non aver portato a termine il mio compito. Non mi resi affatto conto di ciò che era accaduto. »  Questa la storia di Sergio Ramelli, colpevole di essere di destra, colpevole di aver scritto un tema sulle BR. Vittima, inoltre, post portem, di una giustizia sommaria, data la carica di primario attualmente ricoperta al Niguarda di Milano dal suo carnefice. Perché a loro, ancora oggi, quaranta anni dopo, tutto e’ permesso.

Enrico Pedenovi:

 Nato a Pavia il 2 settembre 1926, fu uno delle vittime dei così detti “Anni di Piombo”. Svolgendo il mestiere di avvocato fu durante la guerra un membro della decima MAS; finito il conflitto decise di continuare a sostenere l’ideale per cui aveva già combattuto, militando nel Movimento Sociale Italiano fino a venire eletto consigliere provinciale di Milano nella propria lista. Descritto da molti come una persona tranquilla e pacata, viveva serenamente con sua moglie e le sue due figlie. Alla sua ascesa al consiglio provinciale, entra da subito nel mirino di Lotta Continua e Avanguardia Operaia, movimenti terroristici dell’estrema sinistra che già da lungo tempo avevano mietuto numerose vittime innocenti con la scusante dell’antagonismo politico. Furono proprio i militanti di Avanguardia Operaia a pubblicare il nome di Pedenovi tra quelli dell’elenco dei neo-fascisti da colpire: “Pagherete per tutto” questo era il nome della lista di proscrizione che mise in pericolo le vite di molte persone.

I gruppi passarono direttamente dalle parole ai fatti, quando il 29 aprile del 1976, Pedenovi, dovendo tenere un discorso in ricordo dell’anniversario della morte di Sergio Ramelli, studente ucciso a sprangate l’anno prima da un commando di Avanguardia Operaia, mentre si apprestava a ripartire sulla sua auto per andare sul posto di lavoro, venne improvvisamente avvicinato da una Simca 1000 verde da cui uscirono tre individui che gli spararono senza esitazione. Enrico fu così, freddato sul colpo tanto che i soccorsi furono vani.

Per rendergli giustizia si dovranno attendere altri 8 lunghi anni, quando nell’ottobre del 1984, la Corte d’Assise di Milano cominciò ad emanare le prime condanne. I condannati in Corte d’Appello furono Enrico Galmozzi, condannato a 27 anni, Bruno Laronga condannato a 29, e Giovanni Stefan, già latitante, condannato all’ergastolo. Tutti facevano parte di Prima Linea, movimento terroristico dell’estrema sinistra nato nel 1974 da una scissione di Lotta Continua.

Il caso Pedenovi, fu un dei pochi per i quali venne fatta giustizia condannando, dopo tempi relativamente brevi, quasi tutti i colpevoli dell’omicidio. Stafan, tuttavia, latitante al momento della condanna fu arrestato solo nel 2005 in Francia, dove reputarono la condanna oramai prescritta.

Di contro sono purtroppo tantissime altre le vittime – tra cui lo stesso Sergio Ramelli a cui Pedenovi voleva rendere onore – che non ebbero e non avranno mai la giustizia dei tribunali. Pedenovi fu una delle vittime dell’odio antifascista di quegli anni. Anni durissimi, durante i quali amare la propria Nazione e il proprio Popolo era considerata una colpa da chi, di contro, agendo nell’ombra, ha sempre covato solo odio e rancore.

In suo onore, dopo il terribile agguato, la provincia di Milano dedicò un’aula nel cortile d’onore nella quale ogni anno viene celebrata una cerimonia in sua memoria.

 Carlo Borsani:

Nato a Legnano nel 1917, Carlo Borsani ricoprì uno degli incarichi di maggior rilievo nella Repubblica Sociale Italiana, nata subito dopo la dissoluzione dello Stato Italiano. Fu proprio negli anni della RSI che la vita di Borsani s’intrecciò strettamente con quella di Mussolini.

La esistenza fu breve e straordinaria: figlio di un operaio rimase in giovane età orfano di padre e visse per molto tempo in povertà. Con enormi sacrifici da parte della madre, riuscì a iscriversi alla facoltà di giurisprudenza ma non a portare a termine i suoi studi dal momento che fu chiamato a prestare servizio nel Regio Esercito, dove, in breve tempo, divenne Sottotenente.

Nella notte tra l’8 e il 9 Marzo 1941 fu ferito in combattimento e, mentre veniva portato lontano dal campo di battaglia, fu colpito da proiettile di mortaio. La relazione medica fu critica: pur riuscendo a scampare la morte perse la vista. Ciò gli valse medaglia d’oro al valore militare Congedato perché dichiarato mutilato di guerra e grande invalido, al ritorno dal fronte, iniziò una grande propaganda patriottica nell’Associazione Nazionale Mutilati e Invalidi di Guerra che lo fece raggiungere in breve i vertici del Regime.

Dopo gli avvenimenti dell’8 Settembre, nonostante l’armistizio firmato da Badoglio, egli decise di consacrare la propria esistenza alla patria tradita proseguendo la guerra sotto i vessilli della RSI; per Borsani il non seguire Mussolini, sarebbe stato un affronto a tutti quegli Italiani che avevano fatto sposato la causa Fascista e che, per amore dell’Italia, avevano lottato fino all’estremo sacrificio.

Divenuto Presidente dell’Associazione, gli fu affidata direttamente da Mussolini la direzione di un nuovo quotidiano, La Repubblica Fascista.

Rimase sei mesi alla conduzione del giornale durante i quali entrò spesso in disaccordo con la linea oltranzista tenuta da Farinacci e Pavolini per i propri appelli a superare gli odi fratricidi. Il suo ultimo editoriale prima di essere deposto dalla guida della testata titolava Per incontrarci, un invito alla conciliazione in nome del bene nazionale rivolto a chi, in quel momento, seppur italiano si trovava dall’altra parte delle barricate. Istanza che – inutile dirlo – rimase inascoltata.

Nonostante ciò e nonostante il proseguire di quella guerra che sembrava dagli esiti oramai immutabili, Borsani dimostrò grande spirito di fedeltà e proseguì nelle proprie attività di sprono dei soldati e del Popolo che nel Fascismo Repubblicano avevano visto la salvezza della Patria: «No, non è vero che tutto è finito: dobbiamo ancora morire».

Il 26 aprile del ’45, con la feccia partigiana che commetteva atrocità nei confronti del nemico sconfitto e della popolazione civile, trovò rifugio all’Istituto Oftalmico di via Commenda dove da anni era in cura a causa della sua cecità e lì venne individuato da alcuni antifascisti. Il giorno seguente venne dunque prelevato insieme ad un suo commilitone, il Maggiore Bertoli, e trasferito in una cella del palazzo di giustizia insieme ad altri detenuti politici.

La mattina del 29 Aprile alcuni partigiani, i cui nomi sono rimasti sempre sconosciuti, si presentarono con documenti del C.L.N. per trasferirlo in un’altra località. Il Maggiore Bertoli richiese di poterlo seguire al fine di poterlo assistere data la sua disabilità, ma i partigiani gli negarono il permesso e mentre questi stava preparando gli effetti personali che Borsani avrebbe dovuto portare con sé, i partigiani esclamarono: «Dove va lui non servono!».

Il 29 aprile, dopo un processo sommario di cui non c’è traccia documentale, Borsani fu portato a Piazzale Susa e lì, assieme ad un prete, Don Calcagno, che come lui aveva aderito alla Repubblica Sociale Italiana, fu assassinato, con un colpo di fucile alla nuca, da un gruppo di ignoti partigiani. Prima dell’esecuzione, Borsani ebbe modo di trarre dal portafogli la prima sciarpetta di lana della figlia Raffaella, baciarla per l’ultima volta e gridare «VIVA L’ITALIA!».

Il suo corpo venne poi messo su un carretto della spazzatura con un cartello recante la scritta «ex medaglia d’oro», per essere poi portato al campo 10 di Musocco, quello dei “criminali di guerra” dove tutt’ora giace assieme agli altri caduti della Repubblica Sociale Italiana.

Quando Borsani morì, a soli 28 anni, sua moglie attendeva un figlio che volle chiamare Carlo, in memoria dell’assasinato genitore. Fu lui che ricostruì la vita del padre grazie ai racconti della madre, alle testimonianze e ai documenti raccolti in anni di pazienti ricerche.

Borsani si schierò con quanti avevano deciso di aderire alla RSI in nome di quello spirito di sincero patriottismo che aveva portato oltre 600 mila persone a non accettare la resa e la sconfitta del Fascismo e della loro Nazione. Maturato dalla cecità e sorretto da una genuina fede cristiana, Borsani vedeva nella Repubblica di Salò l’emblema di un Paese che, stretto d’assedio, andava difeso difeso ad ogni costo.

Intransigente fascista della prima ora, imperniava i suoi numerosi editoriali sui motivi di patria, dovere, onore, e necessità di sopportare le sofferenze della guerra in nome di un bene superiore e più alto e mai vi furono parole d’odio per il nemico.

Alcune delle cose accadute nell’aprile 1945 resteranno per sempre senza spiegazione. Fu guerra civile, è vero, ma un colpo di pistola alla nuca di un mutilato e invalido è cosa che nemmeno con la guerra civile può essere spiegata. Evidentemente sai che per essersi guadagnato una medaglia d’oro al Valore Militare, la guerra la sa fare davvero, senza abbassarsi al livello infimo del banditismo partigiano e, anzi, elevandosi a una ristretta cerchia di soldati che trovano nella coscienza e nel dovere la forza per sfidare la materia, compresa quella del proprio corpo ormai dilaniato dai combattimenti. Perché non solo con il corpo si combatte ma, soprattutto, con lo Spirito.

Eppure l’assassinio di Carlo Borsani, a guerra finita, non ha attenuanti. Meno ancora può essere accettabile che abbiano fatto del suo corpo un “trofeo” da esibire sconciamente per le vie di Milano, con appeso al collo un cartello che oltraggia chi l’ha scritto non certo la vittima.

Forse loro non lo sanno, ma la medaglia d’oro non si revoca. Carlo Borsani è, sarà sempre, medaglia d’oro al Valor Militare. Oggi come allora, per aver difeso la Patria, terra dei padri, di tutti i padri, anche di quelli che hanno generato i suoi assassini vigliacchi. Ecco perché Carlo Borsani, oggi, ha una targa a Piazzale Susa che fa urlare il “Presente” a centinaia di ragazzi ogni 29 aprile. Ecco perché lo custodisce il Campo 10, il Campo dell’Onore. Ed ecco perché siamo orgogliosi, persino un po’ smarriti, quando ci avviciniamo alla sua lapide per pulirla e decorarla, come le altre mille, e a lui, primo delle tre medaglie d’oro sepolte al Campo, ancora oggi, rivolgiamo, sull’attenti il grido «Presente!».

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